Intervista a Alejandro Jodorowsky
Elsa Masetti - 01/01/2016
Guarire l’anima, è questo che si ripromette Alejandro Jodorowsky, con il suo ultimo film La danza della realtà, in prima nazionale a Milano Marittima, il 16 maggio 2014. Dell’arte sacra di fare cinema, il vero cinema – non quello americano di cassetta che rincretinisce – ha parlato durante la conferenza stampa. Poche le domande alle quali ha risposto, ma chiaro e pregnante l’intento: «Il cinema per me è un'arte completa, ha tutto, musica, architettura, colori, letteratura, poesia... Un'arte prostituita, poiché la sua finalità non è quella di far denaro. Se dio da denaro tu apri la tasca, ma non lo fai per denaro. La finalità dell'arte è aprire lo spirito del pubblico, perché comprenda la richiesta della sua stessa anima».
Ci si può chiedere, come gli ho chiesto, può la tua arte, davvero, curare l’anima di tutti quelli che guardano, aprire il cuore, indipendentemente dal livello di coscienza, di evoluzione?
«Sì, un vero artista – che è un poeta – asseconda l'evoluzione dell'umanità e conosce la compassione. Se, su una barca vanno insieme una persona che non sa leggere ma sa nuotare, e un erudito – che è un sapiente ma non sa nuotare – quando la barca affonda, è l'erudito che annega. Sapere molte cose, non è averne esperienza. Chi non sa troppo è una meraviglia, puoi aprirlo a emozioni che non conosce. Ho visto molti piangere dopo la visione del film, è un'esperienza poetica, un'apertura di cuore, sì».
I più pensano che l’atto terapeutico, che cura, sia il “sapientone guarito” a farlo, o il luminare di turno, ma non è così e il messaggio di Alejandro Jodorowsky è onesto, intimo e universale insieme: «Sto cercando di guarire la mia anima. Non si tratta però di un film narcisistico o egocentrico. La poesia non parla di storia. Parla della vita interiore e di problemi universali». Questo ha detto alla troupe, prima d’iniziare a girare.
È nel guarire la nostra di anima, che quella del mondo trova la sua guarigione. Non c’è guarigione dell’anima che non sia cura dell’anima dell’umanità. Pensare in termini puramente personali, questa è malattia. Significa fare dell’arte un’industria malata, com’è diventata quella del cinema idiota americano che – come dice Jodorowski – crea bambini idioti con l'idea dei super uomini, della violenza, di compratori e consumatori compulsivi. Questo, il regista lo chiama un crimine contro l'umanità.
Il pensarci delle isole, che tutto finisce con noi, è povertà di spirito. L’amore di Jodorowski per i valori umani, per l’essere umano, non importa chi, uomini e donne, nani e mutilati, perdenti ed eroi, è ciò che arriva dritto al cuore. Siamo diventati, i più, molto self concern, sempre pre-occupati di sé, su come diventare super, eroi da film che sgomitano in qua e là, che scansano gli sfigati, che si sentono geni quando hanno successo, irresistibili con una taglia di seno in più. Proprio questo mi ha allargato il cuore, durante un suo seminario al quale ho partecipato lo scorso anno, a Milano. Al suo invito di esprimere un intento, un desiderio, tutti o quasi abbiamo risposto con una richiesta personale: voglio diventare la pittrice di successo che non ho mai potuto essere, voglio lasciare quel lavoro mediocre per uno più illustre, voglio primeggiare in quella materia… fine a se stessi. E pacatamente, l’ha fatto notare, nessuno pensava il suo cambiamento in funzione, anche, del benessere altrui. Ama prima te stesso è diventato un po' un tormentone: ma chi caspita è questo te stesso da amare, quello confinato in un corpo con un determinato nome che più è sulla bocca di tutti più mi amo?
E così il filo si ricongiunge, al resto della sua risposta, in conferenza stampa: «Dobbiamo pensare che non siamo solo una generazione ma varie generazioni, non siamo individui siamo umanità, bisogna restituire all'arte il suo scopo sacro, vale a dire renderci più sensibili, comprendere che abbiamo sentimento, capire che l'altro esiste, capire che quello che dai lo dai e basta, questo è il lavoro dell'arte, anche quello dell'intrattenimento, per cui bisogna essere decisi a fallire. Un buon fallimento, è mille volte meglio di un trionfo malato».
Poi ho visto il film, La danza della realtà, già titolo di un suo libro autobiografico, ma voglio lasciarvi la sorpresa, che possa schiudervi all’intimità recondita e al sollievo che ne deriva, se è dato. Quel film per cui Jodorowsky ha atteso ventitre anni, prima che arrivassero i finanziamenti indipendenti, e che avventura il loro arrivo! Volentieri racconto invece ciò che mi ha commosso, nella conferenza-spettacolo, prima che andasse in onda la visione. Jodorowsky leggeva, commentandola sul palco – con il suo dotato piglio da istrione – una sua poesia, quella da cui è nata la pellicola stessa. Si è messo a raccontare dei suoi genitori, entrambi emigrati, che lavoravano tutto il giorno in una sorta di merceria in un paesello del Cile dimenticato da dio. Ebbene, spesso, lo lasciavano solo per andare al cinema, nella sua culla di bimbo. Lui si sentiva abbandonato, trascurato, infreddolito, impaurito e, mentre lo raccontava, ha accolto un’intuizione, nuova per la sua anima, che ha espresso, sorpreso, in questo modo: «Ecco perché ho fatto cinema! Perché i miei genitori venissero da me, a vederlo».
Ha fatto, tenacemente e con fantasia, il suo atto psicomagico-metagenealogico. Non solo ha messo in scena la sua famiglia d’origine, come si fa nelle costellazioni familiari classiche, ma l’ha messa in scena in un vero e proprio film con tutti gli intrecci sistemici. Film girato nel suo paesello di nascita, sperduto, dove per tre secoli non si era vista una goccia di pioggia e dove, più di settanta anni dopo, tutto era rimasto uguale. È lì che ha offerto la sua prima mondiale – a Tocopilla, altro che Hollywood! Nel campo da calcio. Ottomila spettatori.
Che siano bastati a compensare quello sguardo amato, unico nel custodire il sonno di un bimbo?
«Soffriamo molto di quello che ci accade nell'infanzia. Io credo che il passato si possa guarire con una tecnica che ho inventato, la psicomagia: fare delle azioni metaforiche che vanno a cambiare il passato. Mia madre aveva dei seni molti grandi – non è Fellini è Jodoroswky – amava cantare e avrebbe sempre voluto fare la cantante d’opera, ma è stata tutta la vita in un negozio a vendere. Nel film è una cantante lirica, che canta sempre. Ho realizzato mia madre, il suo sogno. Mio padre era feroce, voleva che io fossi un uomo forte, parlava sempre di andare ad ammazzare il dittatore dell'epoca. Non l'ha mai fatto, e nel film io lo mando a uccidere il dittatore. Chiaro che per la storia non può ucciderlo, quindi sparisce.
Alla fine, proprio nel film, sono arrivato a vedere mio padre umano, un essere umano. Ho cambiato nella mia mente la sua immagine e quella di mia madre, e cambiando l'immagine di come li vedevo da bambino, è cambiato il figlio, è cambiato l’intero villaggio. I turisti vanno ora a vedere il luogo del film.Tutto è cambiato, ed è la guarigione. Per questo mi vedete così contento!».