Cerva, farfalla, civetta: i simboli della Dea Madre
Marisa Grande - 01/01/2016
Tratto dal libro di Marisa Grande Dai simboli universali alla scrittura (Besa Editrice, 2010).
Nell’immagine del Cervo astrale si riconobbero nell’Olocene le genti dell’area centrale del continente europeo, che nella fase pregressa del Paleolitico Superiore si erano già riconosciute nel mitico e virtuoso Unicorno.
Un cervo accovacciato, in posizione detta “al galoppo volante”, che si stagliava dinamico nel cielo delle medesima area boreale, divenne, in seguito, l’emblema ereditato delle popolazioni nomadi migranti verso est, lungo l’area carpato-danubiana. Ricorrente nell’oreficeria prodotta nel III millennio a.C. dal misterioso popolo degli Sciti e dei Saka, la sua immagine attesta un’originaria derivazione di quelle genti da un unico ceppo etnico-culturale nord-europeo, scisso poi nel ramo nomade esteso tra il Mar Nero e la Cina e in quello a orientamento stanziale, che andò ad occupare quell’area delle Alpi Camune che aveva aperto la strada verso il sud agli originari cacciatori di cervi, pervenuti nell’estremo territorio italico nel VII millennio a. C.
Il ramo etnico, che migrò in direzione nord-est, divenne nomade nelle aree gravitanti intorno al Mar Nero. Si spinse anche fino al Deserto dei Gobi, dove sono state rinvenute delle mummie che rimandano ad un’etnia tipicamente nordica, con uomini e donne di pelle bianca, biondi e rossi, dalla notevole altezza.
Nelle incisioni rupestri dell’arte camuna che coprono un arco di tempo esteso dal III al I millennio a.C., Orione è riprodotto in forma di arciere insieme al cervo con le stesse forme schematiche dei pittogrammi di Porto Badisco, ma anche come antropomorfo combattente con una nuova arma, denominata “paletta”.
La Grande Madre è rappresentata, invece, come “dea farfalla in volo”, imprendibile e mutevole, ossia in un altro aspetto della trasmigrazione della dea in forme animali, dopo essere stata già trasformata da “antropomorfa alberiforme” a “farfalla notturna” nei pittogrammi a figure nere della Grotta dei Cervi di Badisco.
Nella dea farfalla camuna le grandi ali dispiegate prendono il posto dei prosperosi seni che avevano caratterizzato la feconda madre astrale riprodotta nelle Veneri paleolitiche, il cui richiamo persiste ancora nella dea Cerva alberiforme di Badisco. Il corpo obeso della dea si è, però, progressivamente assottigliato fino a divenire filiforme e le gambe unite dell’originaria figura antropomorfa si sono divaricate a contrastare una subentrata instabilità, per assumere talvolta anche un andamento spiraliforme orientato in opposte direzioni.
La metamorfosi da dea opulenta a dea farfalla passa attraverso un processo formale di origine astronomica, derivato dalla forma della costellazione Cassiopea. Residuo della macro-costellazione che nel Paleolitico aveva delineato la figura opulenta della Dea Madre, la costellazione “vibrante”, a forma di schematica farfalla che agita le ali, assunse la funzione di rappresentare la tramontata dea, in parte inabissata al di sotto dell’orizzonte. Dalla intensità del suo sfarfallio, della sua vibrazione pulsante per l’instabilità della più settentrionale Gamma la gigante azzurra instabile che emette anelli di gas, i sacerdoti-astronomi potevano trarre gli auspici per il grado di fertilità annuale. Pratiche sciamaniche, svolte per scongiurare gli effetti negativi della sua mutevole attenzione verso l’umanità, suggerirono l’associazione della farfalla notturna con le arti magiche e con i riti propiziatori della fertilità. Questo carattere magico coinvolge la Grotta del Genovese a Levanzo e la Grotta dei Cervi di Badisco. In entrambe troviamo una figura insettiforme, che richiama la forma di una farfalla notturna denominata “magura”, da cui derivano tutti i nomi collegati con la magia.
I gruppi in cui si distinguono le farfalle sono due: gli eteroneuri e gli omoneuri. La bellezza che caratterizza le farfalle che fanno vita diurna viene meno in quelle crepuscolari e notturne, la cui apparizione improvvisa poteva diventare inquietante e misteriosa, soprattutto se ingigantita sulle pareti delle grotte alla luce delle fiamme dei fuochi accesi nel loro interno. L’ignaro lepidottero assommò su di sé tutti gli ingredienti ideologici necessari a simboleggiare una figura magica, ambivalente e trasmigrante tra il mondo solare e positivo della vita e quello crepuscolare, enigmatico
e negativo della morte. I due grandi occhi finti che la farfalle esibiscono sulle loro ali, ai fini di sfuggire ai loro predatori, come avviene per tutti gli animali che hanno capacità mimetiche necessarie a preservare la loro vita dagli attacchi degli altri animali, suggerivano probabilmente a quelle genti profondamente provate da eventi catastrofici o da gravi difficoltà di sopravvivenza una somiglianza con altri animali notturni, come i rapaci. Per questo la civetta, l’uccello che si nasconde durante il giorno, che vive in simbiosi con la Luna, che annuncia con il suo verso la morte, si collega ancora oggi tanto ad una figura lugubre, quanto ad una giovane donna seduttrice e di facili costumi.
A testimonianza dell’associazione della civetta con la dea Madre fu elaborato il geroglifico egizio che significa M, comune sia con Madre (Mut), che con Morte (Met). Solo in Grecia, durante il periodo classico, la civetta venne collegata, con un’idea nuova prodotta dalla rinnovata razionalità dell’essere umano, ad Athena, dea della sapienza, nata direttamente dal cervello del Grande Padre Zeus. Ciò la svincolava dalla nascita secondo natura da una Dea Madre che da millenni aveva perduto la sua originaria capacità protettrice nei confronti dell’uomo e che nei miti arcaici aveva assunto le vesti di Era, la terribile moglie di Zeus, accostata agli antiche divinità terrifiche, come Vulcano e Poseidone.
Il nome scientifico della civetta è Athene noctua, poiché, quando fu collegata ad Athena, la divinità di nuova generazione, il suo ruolo venne ampiamente rivalutato, a dispetto dell’opinione comune di origine ancestrale. La stessa Athena, con il suo ingegno e con la sua benevolenza nei confronti degli uomini, riscattava l’immagine di una divinità femminile ambigua che, se pur penitente, come la “dea dei serpenti” cretese, faceva parte oramai di un pantheon trascorso e superato di divinità distruttive e caotiche.
Tratto dal libro di Marisa Grande Dai simboli universali alla scrittura (Besa Editrice, 2010).
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