Pietre Erranti: le sfere di Moeraki
Sabrina Mugnos - 01/01/2016
Tratto da Scienza e Conoscenza n. 37.
Siamo in Nuova Zelanda, una fetta dell’Oceania, quell’elusivo continente così remoto ed esotico da essere quasi inquietante, in quanto inimmaginabile, già ai tempi dei primi anni scolastici. Eh già, perché il mappamondo deve torcersi per una buona spanna per mostrarci la sua collocazione, sparpagliata nell’immensità dell’oceano Pacifico. Ma la sua effettiva distanza la si coglie solo coprendola: dall’Italia gli aerei da prendere – che si danno il cambio a mo’ di staffetta alla velocità di circa 900 chilometri orari – devono volare oltre 25 ore per coprire i quasi 20.000 chilometri che occorrono per raggiungerla. Considerate che la circonferenza terrestre è solo il doppio. Per noi europei è senza dubbio una meta all’altro capo del mondo. Eppure, una volta arrivati, ci si sente a proprio agio. Gli abitanti sono ospitali, cordiali e sereni; le città sono accoglienti, pulite e dotate di ogni comfort tecnologico. Per l’alimentazione c’è solo l’imbarazzo della scelta tra menù di terra e di mare, passando per una serie infinita di modalità etniche per cucinare il cibo, sempre ottimo e abbondante. L’unico, piccolo, disagio, almeno per noi mediterranei, può essere il clima. L’anno scorso in piena estate (ovvero in gennaio-febbraio, in quanto ci troviamo nell’emisfero Sud) la temperatura è sempre stata sotto i 18 gradi, resa ancora più rigida dal vento freddo e costante tipico delle terre insulari. E anche l’acqua del mare è alquanto fresca.
Infine, lo stesso territorio è famigliare. Una rigogliosa vegetazione ricopre quasi totalmente la superficie, e ci sono pascoli ovunque, piacevolmente interrotti dalla coltivazione della vigna, nella zona a Nord dell’isola Sud, che alimenta una rinomata tradizione vinicola.
Ci si ricorda di essere nell’immensità dell’oceano quando lo si ammira da spiagge lunghe decine di chilometri, sferzate da un vento impetuoso, ricche di piante, conchiglie e animali esotici, come foche, elefanti di mare, pinguini e albatros.
Ma il paesaggio neozelandese sa offrire anche inaspettate sorprese che lo consacrano a tempio della natura impetuosa, come maestosi vulcani, taluni ancora iperattivi e ricchi di una rigogliosa attività idrotermale, imponenti fiordi e ghiacciai.
In questo bizzarro panorama non poteva mancare una stravaganza geologica come i massi di Moeraki (o Moreaki Boulders, nella dizione originale).
Come biglie sul bagnasciuga
Si tratta di un gruppo di sfere rocciose perfettamente tonde che punteggiano la battigia della spiaggia di Koekohe, vicino al piccolo insediamento di Moreaki, sulla costa di Otago, nell’isola sud.
Sparpagliate come biglie sul bagnasciuga, se ne contano oltre una cinquantina – tra integre e frantumate. Alcune superano i due metri di diametro e pesano oltre sette tonnellate, mentre altre arrivano a qualche decina di centimetri di dimensioni; ma in media il loro diametro si aggira intorno al metro.
La leggenda Maori ha una propria spiegazione relativa alla loro origine. Il gruppo Ngai Tahu, che viveva nell’area limitrofa, associa i massi al naufragio della grande canoa Arai Te Uru, a seguito di una tempesta, mentre navigava verso Sud. Le sfere sarebbero la trasfigurazione di parte del suo carico, ovvero cesti tondi di cibo e zucche. Ma altri elementi dell’evento sono stati cristallizzati nel paesaggio: lo scafo sarebbe diventato la scogliera che si estende in mare fino a Shag Point, e la grande roccia, Hipo, il navigatore. E ancora molte delle colline tra Moeraki e Palmerston portano i nomi dei membri dell’equipaggio, e una quello dell’onda che sommerse l’imbarcazione.
Incubate dal mare, partorite dalla terra
La scienza, ovviamente, propone un’altra spiegazione, non meno romantica.
A prima vista i massi sembrerebbero essere stati cesellati e poi depositati dal mare, ma in realtà la loro provenienza va cercata nella direzione esattamente opposta, ovvero presso i rilievi che si innalzano a ridosso della spiaggia.
Per milioni di anni, infatti, queste scogliere le hanno custodite dopo averle forgiate nel loro grembo. Poi gli agenti atmosferici hanno dilavato via la roccia più soffice, liberandole, e permettendo loro di rotolare sulla battigia. Si è trattato, insomma, di una sorta di parto.
Però la loro prima incubatrice è stata proprio il mare. Il processo cominciò circa 60 milioni di anni fa (nel periodo del Paleocene), quando gran parte del Nord dell’Otago era ricoperto dall’oceano.
La loro formazione iniziò quando piccole quantità di materiale cementizio (quale carbonato di calcio, biossido di silicio, solfuro di ferro o ossido di ferro) dissolte nell’acqua (che rimane intrappolata tra le particelle sedimentarie durante la deposizione dei sedimenti sul fondo oceanico) andarono ad aggregarsi intorno al materiale organico presente dentro il sedimento marino fangoso deposto sul fondo. In pratica oggetti come conchiglie, ossa e frammenti di piante, agiscono come nuclei di condensazione intorno ai quali i minerali disciolti nell’acqua cominciano gradualmente a cristallizzare. Dopo migliaia e milioni di anni si sono così formate tali gigantesche sfere che i geologi chiamano concrezioni.
Infine, circa 15 milioni di anni fa, durante il Miocene, il fondo marino si sollevò fin sopra il livello del mare, dove le forze erosive cominciarono il loro lento lavorio: la matrice rocciosa, ovvero l’ex fondale marino fangoso, venne divorata lentamente e i massi videro la luce.
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Scritto da Sabrina Mugnos
Geologa, ha studiato e visitato decine di vulcani in giro per il mondo attraverso esplorazioni avventurose e talvolta estreme. Si occupa da tanti anni anche di astrobiologia e di archeoastronomia. Il suo libro, I maya e il 2012. Indagine scientifica (Macro Edizioni), sta riscuotendo un grande successo in Italia e in diversi paesi stranieri. Impegnata in corsi, seminari e convegni a respiro internazionale, è spesso ospite di trasmissioni televisive e radiofoniche.
Per maggiori informazioni: www.sabrinamugnos.com.