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Warology. La guerra è dentro di noi


Daniel Tarozzi - 01/01/2016

Tratto dal documentario Warology (DVD, Macroticonzero, 2011)

Daniel Tarozzi - Come nasce Warology?

Morgan Menegazzo - Tutto è cominciato con un’indagine sulle armi ambientali “a livello percettivo”. Fin da subito ci siamo dovuti confrontare con una crisi del mondo dell’informazione. Persino su internet si andavano formando gli schieramenti e ci si trovava a dover osservare scontri tra siti che si definiscono di informazione libera o di controinformazione e i cosiddetti “debunkers”.
Io e la mia compagna, Mariachiara Pannisa, abbiamo quindi iniziato a contattare gli attivisti, ma non siamo rimasti soddisfatti delle interviste realizzate, sia perché le trovavamo di parte, sia perché ci sembravano un po’ “approssimative”. In molti casi, abbiamo purtroppo avuto la netta sensazione che alcune di queste persone indossassero dei veri e propri paraocchi.
Ci siamo quindi resi conto che se volevamo offrire autentica informazione dovevamo sperimentare strade diverse, tenendo bene a mente i nostri destinatari e le possibili fonti di informazione; è stato a quel punto che abbiamo iniziato ad analizzare la situazione dal punto di vista istituzionale, cercando di coinvolgere anche i militari. Alla fine del processo ci siamo trovati costretti a scartare moltissime interviste e decine di ore di materiale, ma siamo soddisfatti del risultato e crediamo che il percorso intrapreso sia stato quello giusto.

D.T. - Inizialmente stavate indagando sulle scie chimiche, ma il documentario ha preso poi una direzione molto più ampia.
M.M. - Sì, le prime interviste sono state realizzate sul tema delle scie chimiche, ma il nostro interesse su questo tema era esclusivamente di tipo percettivo: volevamo capire come mai, di fronte ad un fenomeno di comune interesse e comune “visione”, ci fossero persone che negassero l’esistenza di ciò che vedevano e altre che invece lo accettavano affermando di sapere con certezza cosa si nascondesse dietro queste scie.
La nostra indagine si è poi allargata notevolmente. Il cuore del progetto, il suo stato di necessità, consiste in una riflessione sui nostri tempi e sul concetto stesso di guerra. Se ci pensi, già il tema “scie chimiche” (chemtrails in inglese) contiene in sé il concetto di guerra. Guerra tra coloro che le negano e coloro che le affermano.

D.T. - Quindi tu usi il termine “guerra” non solo in un’ottica “tradizionale”, ma anche in riferimento alle lotte intestine mediatiche e di informazione?
M.M. - Sì. Nel nostro Paese in particolare, infatti, i media sono controllati dai grandi monopoli e ciò estremizza ulteriormente queste dinamiche. Non è un caso che si sia imposto, in televisione o sui giornali, il “format dei pareri contrapposti”. Spesso questi due pareri che si contrappongono non dicono assolutamente nulla, ma chi li “subisce”, perché spesso questi “pareri” si subiscono, lo fa in modo passivo. In moltissimi casi, si tende a restare comodamente seduti sul divano ad ascoltare due “esperti” discutere sul tema di turno, finendo quindi col costruire la propria opinione su quanto letto o ascoltato, senza nemmeno alzarsi ad aprire la finestra per guardare il cielo, la realtà, con i propri occhi. L’“informato” riceve così una informazione incompleta, parziale.

Warology - DVD
D.T. - Possiamo dire che oggi è cambiato il concetto stesso di guerra?
M.M. - Sì. Prendiamo il concetto di battaglia. Questo si è polverizzato, frantumato. La guerra, oggi più che mai, si fa in vari modi. Lo scontro fisico è sempre più “superato” da altri tipi di “azione”. Come si afferma nel documentario, oggi il “nemico” non lo devi più uccidere; devi farlo diventare consumatore dei tuoi prodotti. Con Warology, abbiamo cercato di indagare sul concetto di guerra e sulla sua percezione in un momento storico in cui gli stessi servizi segreti affermano che tutto è grigio, tutto è confuso.
La guerra, in Occidente, potrebbe sembrare un evento molto lontano, a cui le persone assistono solo in televisione; a mio avviso, invece, il concetto di guerra è presentissimo nella nostra società ed è sempre più marcatamente un concetto “civile”.

D.T. - Il tuo documentario si intitola Warology. Che cosa significa?
M.M. - Diversi motivi ci hanno spinto a intitolare così il nostro documentario. In primis, non volevamo un titolo che potesse far riecheggiare qualcosa di specifico; cercavamo una parola facile, molto pop, che suonasse bene. Pop perché considero Warology quasi un documentario pop: è pieno di tutto – c’è tutto – e magari non c’è nulla di specifico, ma ci sono tanti stimoli per poter iniziare nuovi percorsi di pensiero e di riflessione.

D.T. - Se dovessi definire in poche parole il tema di questo documentario quali useresti?
M.M. - Probabilmente “l’altro lato della guerra” o meglio “la guerra dell’altro”, nel senso che la guerra è un’operazione fatta sui contrasti forti che dall’interno si chiariscono all’esterno. Quando dico “dall’interno” mi riferisco alla percezione e al modo in cui una persona cresce e viene educata in quella che può essere chiamata la propria struttura mentale.

D.T. - Ti riferisci alla “guerra dentro di noi”?
M.M. - Sicuramente parte dalla nostra interiorità, tutto parte da lì. Come dicevamo all’inizio, quando parlavamo delle scie chimiche. Esse sono solo un fenomeno visibile, anomalo, del quale non possiamo dare una spiegazione certa; possiamo solo affermare che ci sono delle anomalie che vengono riscontrate da alcune persone e da altre no. Evidentemente, quindi, esiste un conflitto – che è anche primordiale – non soltanto su come si è, ma anche sulla percezione di ciò che è il mondo. A me interessava provare a guardare la realtà ponendomi sempre dall’altro punto di vista. Generalmente si parla di guerra senza mai citare i militari, senza mai ascoltarli. È paradossale.

D.T. - Continui a parlare di questa guerra combattuta senza armi. Chi sono i protagonisti di questa guerra? Se noi la subiamo, chi la guida?
M.M. - Ti dico la verità: io non so se la subiamo. Il mio è un punto di domanda.

D.T. - Chi sta combattendo questa guerra?
M.M. - È sicuramente una guerra invisibile. Non essendoci più blocchi ben assestati e ben suddivisi ha inoltre caratteristiche e scopi molto più vasti e imprevedibili rispetto al passato. Forse, si potrebbe addirittura affermare che questa guerra viene combattuta soprattutto dalle multinazionali – che sono in nessun luogo e allo stesso tempo dappertutto – nei confronti di ogni singolo consumatore, che dovrà sempre più ammalarsi, senza morire, sempre più invecchiare e consumare determinati prodotti...

D.T. - Mi sembra che dal tuo documentario emerga che “ci paralizzano” attraverso il catastrofismo e l’imposizione di uno stato di paura. È così?
M.M. - È sempre stato così. Chi ha il potere deve sempre “far paura” per impedire il cambiamento. Se una persona detiene il potere ha paura di tutto ciò che è nuovo perché ciò che è nuovo gli porta via il potere! Ciò che si consolida deve aver paura degli attacchi di cellule nuove che si possono
agglomerare e creare nuove forme di vita. Da questo punto di vista non c’è assolutamente nulla di nuovo sotto il sole. È cambiato, però, il modo di affrontare la paura. Oggi possiamo parlare perlopiù di paure virtuali: le persone sono bombardate in continuazione da immagini e informazioni che li possono portare ad un atteggiamento che si incancrenisce. Allo stesso momento, come detto prima, ci sono degli strumenti in più e la consapevolezza
aumenta.
Sono convinto che la Storia con la “S” maiuscola si stia frantumando in tante piccolissime storie e quindi l’individuo incomincia a capire che la storia più importante non è quella della società in cui vive, ma quella personale.

D.T. - Quando parlavamo di scie chimiche, tu affermavi che il vero problema non consiste nelle scie stesse, ma nel fatto che nessuno si chieda veramente cosa si nasconda dietro. Secondo te, argomenti come questo non “passano” in televisione perché qualcuno non vuole che vengano affrontati o perché, più in generale, si è persa l’abitudine a farsi domande?
M.M. - Sicuramente, in generale, non bisogna farsi domande. L’attenzione del pubblico va mantenuta più bassa possibile in modo che le persone si trovino in un continuo turbinio di distrazioni. Inoltre, in tutti i paesi – e soprattutto in Italia – controllore e controllato coincidono, sono la stessa persona.
In generale, comunque, credo che nei mass media attuali qualsiasi domanda venga sempre considerata inopportuna. Non dimentichiamo che lo “share”, i dati auditel di cui sentiamo tanto parlare, in realtà non esiste! Sentiamo dire ogni giorno che “quel dato programma è stato visto da quattro milioni di persone o da undici..., ma chi fa comunicazione sa benissimo che sono stime totalmente infondate. Bisognerebbe indagare sui sistemi della comunicazione perché tutto è sempre più virtuale. Inoltre, l’Italia è il Paese dei tuttologi. Noi non abbiamo un’educazione specialistica, tutti parlano di tutto. Ogni argomento, in questo modo, viene presentato come “già chiuso”, non viene stimolata la riflessione, il dubbio. Di fronte ad un’anomalia, ogni persona dovrebbe chiedersi perché.

D.T. - Come possiamo cambiare questa situazione?
M.M. - Non so, credo che si debba partire col tentare di dare una risposta a noi stessi, al nostro vicino di casa, al nostro compagno di banco, al nostro collega. Dovremmo ricercare un atteggiamento di ascolto sia nei confronti del sé che dell’altro.
Anche in questo caso, i media svolgono un ruolo chiave seminando il terrore e cercando di dipingere il nostro vicino, collega o parente come il vero nemico. Qui abbiamo assistito ad un cambio di paradigma. Prima il nemico era all’esterno, era il “comunista”, il “russo”, l’anticapitalista. Oggi è il nostro vicino di casa.

Tratto dal documentario Warology (DVD, Macroticonzero, 2011)



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