L’ARTE della MATERIA
David Peat - 01/01/2016
Leonardo da Vinci ha nascosto un messaggio religioso sovversivo ne L’Ultima Cena? Il best-seller di Dan Brown, e tutto quello che ne è seguito, ha spedito flotte di diligenti lettori a consultare siti web per farsi una propria idea di chi fosse colui che da Vinci ha dipinto alla destra del Cristo. L’Ultima Cena, come praticamente tutta l’arte nella tradizione occidentale che l’ha preceduta, era profondamente religiosa, perché era la religione che ispirava gli artisti
Al tempo di da Vinci, l’artista e lo scienziato erano la stessa persona, uniti nella loro esplorazione e celebrazione dei misteri dell’universo; avevano a che fare con lo stesso paesaggio. Però gli ultimi secoli hanno assistito alla separazione di arte e scienza, i loro praticanti lavorando spesso da prospettive del tutto diverse e con abilità diverse, nonostante la comune realtà che ognuno cerca di spiegare.
La scienza si preoccupa della natura dello spazio e si fa domande sulla permanenza ed il cambiamento. L’arte dipinge lo spazio, o crea un’illusione di spazio tridimensionale, in cui vari oggetti hanno la loro esistenza. Ma l’arte si occupa anche dello spazio come sede del sacro, un senso dello spazio più ricco che l’architettura manifesta meglio: in una cattedrale, l’occhio è attirato verso l’altare, o in su verso il cielo; in una moschea, ci si inginocchia come l’Adamo primordiale al momento della creazione. Ogni fedele è il centro del mondo.
Nel medioevo, gli artigiani, gli artisti e gli alchimisti – generi di scienziati rudimentali – lavoravano assieme per assistere la natura nel raggiungere la perfezione. Nella città di Siena, l’eco dei pittori Duccio, Martini e Pietro ed Ambrogio Lorenzetti ci ricordano del periodo, prerinascimentale, quando l’arte e la religione erano unite. L’arte cercava di manifestare il sacro – la Madonna col Bambino, la crocifissione, le vite dei santi. In queste opere lo spazio e l’azione sono profondamente integrate. Lo spazio è ricco e mischiato col tempo, in modo che eventi diversi nel tempo coesistano, come coesistono diversi angoli di percezione. Nella Madonna sul Trono (N.d.T.: La Maestà) di Duccio – la pala dell’altare per la cattedrale di Siena – si ha il senso di guardare il trono simultaneamente da angoli diversi. Questo ricco senso dello spazio ci ricorda i gironi nella Divina Commedia di Dante; la forma è una metafora molto densa, che rappresenta non solo i cerchi del paradiso, ma anche le orbite del sole e dei pianeti attorno alla Terra, la cerchia muraria attorno alla città, ed il sé interiore.
Tutto questo è cambiato con il Rinascimento, quando gli esseri umani, piuttosto che archetipi, divennero i soggetti dei dipinti. L’uomo divenne la misura di tutte le cose. La prospettiva, un’invenzione rinascimentale, creò una formidabile illusione di spazio, ma al costo di separare lo spazio dal tempo cosicché gli avvenimenti erano catturati in un singolo statico momento. Il pittore contemporaneo David Hockney suggerisce che la prospettiva sia sorta da tentativi di dipingere la crocifissione, quel momento storico speciale in cui tutti gli occhi sono attratti sulla figura centrale.
La concezione dello spazio era anche cambiata nella fisica. Così come le scene dipinte erano incluse in una regola di singola prospettiva, il cosmo era ridotto alle leggi newtoniane di movimento e forza. Il tempo era ridotto ad un parametro della fisica; l’universo vivente ed organico divenne una meravigliosa macchina. Il grande fisico del ventesimo secolo Wolfang Pauli ha affermato che la scienza newtoniana aveva bandito lo spirito dalla materia. Con lo spazio secolarizzato ed il tempo bandito dalla pittura, l’eterno ed il sacro erano esiliati dal nostro mondo.
Il tempo ritornò nella pittura nel diciannovesimo secolo con Cézanne, che guardò il mondo con tutto il fervore di un grande scienziato. Cézanne scrisse dell’essere seduto sulla sponda di un fiume e di osservare le sue “piccole sensazioni,” talvolta girando la testa da una parte, talvolta dall’altra. Ogni sguardo portava una nuova sensazione e metteva in dubbio quello che era stato visto prima. Quello a cui il filosofo Maurice Merleau-Ponty avrebbe fatto riferimento come “il dubbio di Cézanne” è onnipresente in questi dipinti; ogni pennellata chiama in questione l’illusione creata da quelle vicine. Il tempo è ricco nell’opera di Cézanne, che sentiva che i suoi dipinti erano un’espressione della consapevolezza della natura.
Tuttora gli artisti usano i loro rispettivi mezzi per esplorare e manipolare lo sconosciuto e l’immenzionabile. L’artista britannico Antony Gormley scolpisce statue dal corpo di ferro senza mostrare alcun muscolo o espressione. Il suo lavoro vuole mostrare lo spazio dentro al corpo, che rimane oltre la rappresentazione, ed esplorare la relazione tra i corpi e gli spazi che occupano.
Gormley si riferisce alla tradizione del buddismo Theravada in cui l’amore può essere irradiato o trasmesso senza bisogno di un oggetto. Il suo lavoro vuole essere un catalizzatore che permette che questo amore sia registrato entro quello che definisce “l’oscurità,” o lo spazio interiore, del corpo dell’osservatore.
Anni fa, Gormley faceva parte di un gruppo di artisti e scienziati che parlavano del “pre-spazio,” l’insieme di ipotetiche relazioni algebriche che alcuni fisici sperano saranno la base di una nuova fisica che sarà in grado di spiegare come sono emerse la materia, lo spazio ed il tempo. Gormley più tardi produsse un imponente opera intitolata Quantum Cloud (N.d.T.: Nube Quantica), installata presso il Tamigi. L’opera consiste di barre metalliche saldate assieme per creare l’illusione di una persona nello spazio, o forse di una nuvola a forma di persona. In questo caso, un dialogo tra arte e scienza, dove ciascuno stava cercando un terreno fondamentale sul quale stare, ha portato alla produzione di una nuova opera d’arte e di un modo nuovo di relazionarsi al mondo.
Anche Anish Kapoor, un contemporaneo di Gormley, si occupa del trascendentale e dell’immenzionabile, ma in modo alquanto diverso. Il suo lavoro ha informazioni da molte tradizioni, inclusa la celebrazione induista di Holi, nella quale le persone si gettano addosso pigmenti puri a vicenda. Molte delle opere di Kapoor includono l’espressione del vuoto, un buco nell’opera che è stato coperto da così tanti strati di pigmento puro che risucchia la luce. A fermarsi davanti a questo vuoto, si perde qualsiasi senso di profondità o dimensione. Mentre il lavoro di Gormley indica il sublime nello spettatore, l’opera di Kapoor cerca di esprimere il sublime nell’opera stessa.
Gormley e Kapoor ci inducono a porci la domanda centrale fatta dall’esperienza dell’arte: dove si trova l’esperienza artistica? C’è una vera esperienza qui sul tavolo, spesso alquanto drammatica. Pittura, scultura, musica, poesia – tutte ci provocano qualcosa quando le sperimentiamo. Siamo ispirati, sopraffatti, trasportati. Ma dove siamo trasportati? La nostra anima svolazza brevemente nel regno delle forme di Platone, o nella mente di Dio? In che misura l’esperienza è nell’opera d’arte stessa? L’arte è semplicemente un mezzo per portare un’esperienza dall’artista al pubblico?
All’inizio del ventesimo secolo, queste stesse domande erano poste da un nuovo genere di scienziati: i fisici quantistici. Albert Einstein e Niels Bohr hanno impiegato decadi a lottare con la natura ultima della materia – la “realtà quantistica” che misteriosamente si rivelava nella nuova teoria che si andava formando. Essi si domandarono se la materia abbia “proprietà intrinseche,” indipendenti da qualsiasi osservatore, e come due osservatori potessero guardare la stessa cose e vederla diversa. Erano curiosi della strana realtà che sembrava essere portata all’esistenza dal processo di misurazione. Noi osserviamo un elettrone in un punto, in un istante, e poi da qualche altra parte un attimo più tardi, ma mai tra i due istanti. Ci è proibito presupporre dalla misteriosa logica della teoria quantistica che l’elettrone abbia viaggiato in una particolare traiettoria perché non l’abbiamo visto farlo. Come i personaggi di Star Trek “proiettati giù” sulla superficie di un pianeta, l’elettrone semplicemente sparisce da un posto e riappare in un altro.
La teoria quantistica ha costretto una generazione di fisici riluttanti a limare un piolo quadrato perché entrasse in un buco rotondo. La vecchia idea di una realtà obiettiva, con proprietà che aspettano di essere misurate, ha lasciato il posto ad una strana nuova realtà, una in cui l’osservatore è misteriosamente diventato parte di quello che si sta osservando; la realtà si è rivelata essere in qualche modo partecipatoria.
È qui che la fisica quantistica inizia a risuonare con l’esperienza artistica. Proprio come la realtà quantistica emerge nel processo di misurazione, così pure l’esperienza dell’arte sorge nella contemplazione dell’opera d’arte da parte dell’osservatore. C’è qualcosa di indivisibile ed olistico sia nella realtà quantistica che nell’esperienza artistica; la realtà è l’intero spettacolo e non risiede in alcuna delle parti.
E proprio come l’osservatore ha una relazione col mondo, con la materia, e con qualsiasi opera d’arte, lo stesso si deve dire dell’artista. Janine Antoni, un’artista americana contemporanea, crede che ci sia un divario esistenziale tra l’artista ed il mondo, uno che deve essere colmato in qualche modo. In un certo senso, il divario è fisico – quella porzione separatrice di spazio tra l’artista e l’oggetto. Ma il divario esiste anche ad un livello più profondo, tra l’interno e l’esterno, il soggetto e l’oggetto.
L’opera di Antoni considera come gli artisti siano sottomessi alla materia, mentre la materia è sottomessa all’artista. In un’opera, Antoni ha lavorato per ore, giorno dopo giorno, sfregando assieme due pietre. Attraverso lo sfinimento, l’artista divenne il servitore dell’opera; allo stesso tempo le due rocce erano forzate al contatto, ognuna modellando l’altra per produrre la forma finale. L’artista e l’opera sono in relazione l’uno con l’altro.
C’è una parte profondamente spirituale nella ricerca dell’artista, un bisogno di trascendere e muoversi oltre le categorie della materia, della psiche e dello spirito che ci hanno limitato negli ultimi due secoli. Il desiderio dell’artista è di capire la materia ad un livello oltre quello puramente descrittivo e razionale – conoscere l’essenza del mondo e la sua dimora interiore.
È possibile che il progresso richieda uno sforzo cooperativo, una forma di dialogo tra l’arte, la scienza e la filosofia. Da una certa prospettiva, la scienza ha fatto molta strada; da un’altra, come vero modo di conoscere il mondo, la scienza rimane nella sua infanzia. Il compositore John Tavener parla de “la singola semplice memoria.” Questo era un periodo quando l’artista, l’artigiano e l’alchimista lavoravano tutti assieme nel mondo del sacro. Forse ci stiamo avvicinando ad un periodo quando la scienza, l’arte ed il sacro parteciperanno ancora una volta ad un profondo ed esteso dialogo.
fonte: l'articolo è uscito sul n°12 di Scienza e Conoscenza quale traduzione da Science&Spirit luglio-agosto 2004, per gentile concessione dell'autore e della rivista
David Peat è un fisico teorico amico e collaboratore di David Bohm. E' autore d'innumerevoli libri e fondatore del Pari Center for New Learning a Pari (GR) - http://www.paripublishing.com/blogs/