Morti di Stato: Intervista a Francesco Cappello e a Salvatore Ferrara
Critica al sistema sanitario
Critica al sistema sanitario
I decessi silenziosi da uranio impoverito: stato dell’arte medico-giuridica
Redazione - Scienza e Conoscenza - 13/05/2020
L’uranio (simbolo chimico U) è un elemento chimico radioattivo presente in natura. Nella sua forma pura è un metallo pesante color argento, simile al piombo, al cadmio e al tungsteno. Come il tungsteno, è molto denso, circa 19 g/cm3: per intenderci, è così denso che un piccolo cubo di 10 cm per lato peserebbe 20 kg. L’uranio pre- sente in natura contiene lo 0,72% dell’isotopo 235U. Il restante 99,28% è principalmente l’isotopo 238U.
L’uranio è l’elemento radioattivo principalmente usato per produrre energia atomica: la maggior parte dei reattori richiede che l’uranio venga “arricchito”, ossia il suo isotopo 235U venga portato a concentrazioni più elevate. Il processo per aumentare la concentrazione di un isotopo rispetto a un altro è chiamato “arricchimento”. Dopo l’arricchimento, il “prodotto finale” – contenente quindi una concentrazione più elevata dell’isotopo 235U – è noto come uranio impoverito (DU, dall’inglese Depleted Uranium). Esso è un metallo pesante radioattivo, oltre che chimicamente tossico.
I vantaggi dell’utilizzo del DU per fabbricare armi da guerra (ad esempio munizioni) rispetto alle potenziali alternative è che esso è molto più denso del piombo, il che gli consente di forare un’armatura (che non sarebbe neppure scalfita da altri metalli) infiammandola al contatto col proiettile (effetto piroforico) e affilandosi mentre penetra nel bersaglio. L’impiego del DU in campo di battaglia è stato accertato nella Guerra del Golfo del 1991, dove sono stati sparati proiettili e missili per almeno 300 t (anche se alcune fonti parlano addirittura di una quantità doppia, fino a oltre 700 t), e durante i bombardamenti NATO/ONU nel Balcani nel 1995, per i quali però non si hanno dati certi sulle quantità effettivamente utilizzate.
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Tuttavia, molti studi scientifici hanno appurato che il DU determina danni, anche irreversibili, al corpo umano. Questa problematica investe soprattutto la salute di molti militari, inclusi quelli italiani, che hanno svolto, anche recentemente, missioni di pace in ex teatri bellici contaminati da DU. Il numero di cause e di sentenze a favore dei parenti dei militari deceduti è crescente.
Le quattro principali vie di ingresso del DU nel corpo umano, sotto forma di nanoparticelle, sono la cute non integra (per diffusione), i polmoni (per inalazione), la congiuntiva (per contatto) e la mucosa del canale alimentare (per ingestione). Una volta in circolo, le nanoparticelle di DU vanno incontro a una serie di reazioni chimiche (formazione di ossidi, idrossidi e carbonati) che ne aumentano l’affinità per l’accumulo in alcuni organi.
Tra gli organi nei quali sono stati accertati gli effetti nocivi dell’accumulo di DU vi sono i reni e le ossa. Nel rene, anch’esso organo molto vascolarizzato come il fegato, una esposizione acuta di DU può perfino causare una necrosi tubulare letale. Per quanto riguarda le ossa, esse ospitano al proprio interno il midollo osseo, l’organo emolinfopoietico più importante del corpo umano in quanto produce tutti gli elementi corpuscolati del sangue: globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. L’accumulo di DU nel midollo osseo è stato associato non solo all’insorgenza di tumori emolinfopoietici (leucemie e linfomi) ma anche alla riduzione dell’efficacia della risposta immune, soprattutto in termini qualitativi (risposta immunitaria di tipo innato, di cui fanno parte i linfociti NK) e questo, a cascata determina, una maggiore suscettibilità generale dell’individuo all’insorgenza di qualsiasi tumore, incluse forme molto rare.
Per comprendere meglio come una simile contaminazione sia potuta avvenire e come la questione è stata gestita dalle autorità coinvolte, abbiamo posto alcune domande a due esperti sul tema, il professor Francesco Cappello, Medico Chirurgo, specialista in Anatomia Patologica, Ordinario di Anatomia Umana presso l’Università degli Studi di Palermo, Presidente della Società Italiana di Biologia Sperimentale, Adjunct Professor presso la Temple University di Philadelphia (USA) e la University of Texas Medical Branch di Galveston (USA), e l’avvocato Salvatore Ferrara, avvocato cassazionista del foro di Palermo, esperto di diritti della personalità (reputazione, salute) e di tutela risarcitoria del danno conseguente alla esposizione a fattori di rischio (amianto, uranio impoverito); autore di pubblicazioni giuridiche in tema di danno parentale e uranio impoverito.
Professore Cappello: molto spesso ad agire in giudizio sono i congiunti del militare deceduto a causa di una malattia neoplastica. Come si fa ad accertare se la vittima ha o meno inalato nanoparticelle di uranio impoverito o di altri metalli pesanti?
È una questione molto dibattuta dalla comunità scientifica internazionale. Il rilevamento delle nanoparticelle negli organi umani è stato tentato attraverso tecniche microscopiche e chimiche, ma ci sono numerose variabili che non hanno consentito di rendere riproducibili, e quindi scientificamente valide, le metodologie proposte. Sicuramente oggi si sa che è più probabile che si riesca a ritrovarle in organi o regioni anatomiche molto vascolarizzate, come il midollo osseo, il fegato, il rene o alcune strutture del sistema nervoso, come l’occhio.
È necessario effettuare un esame necroscopico dei resti della vittima o esistono circostanze o indicatori dai quali, attra- verso un ragionamento di tipo presuntivo, si può raggiungere una ragionevole certezza in tal senso?
È proprio questo il punto: ad oggi le uniche prove che possono essere prodotte sono quelle indirette: è altamente probabile (e comunque più probabile che non) che un soggetto che si sia trovato a lavorare, anche per brevi periodi (settimane o mesi), in zone contaminate senza adeguate protezioni in grado di prevenirne l’inalazione, l’ingestione e il contatto con la cute e le mucose del corpo, abbia assorbito e quindi accumulato le nanoparticelle nel proprio corpo.
Perché alcuni soggetti che sono stati potenzialmente esposti alle nanoparticelle di uranio impoverito sviluppano il cancro e altri no?
Questa domanda è di estrema importanza. Bisogna per prima cosa fare un piccolo bagno di modestia e ammettere che noi non sappiamo tutto sui processi che portano allo sviluppo di un cancro. Tuttavia c’è accordo nella comunità scientifica internazionale secondo cui il cancro è un processo a tappe, che possono essere schematicamente riassunte come segue:
iniziazione > promozione a> progressione.
Se l’iniziazione (ossia l’insorgenza di mutazioni che trasformano cellule normali in cellule potenzialmente tumorali) è un processo che può essere dovuto al caso e probabilmente indipendente dall’esposizione a uranio impoverito, negli altri due step l’uranio impoverito può avere un ruolo importantissimo, abbassando le difese immunitarie e determinando la capacità da parte delle cellule potenzialmente tumorali di eludere la sorveglianza immunitaria e invadere i tessuti circostanti, quindi di diventare francamente tumorali.
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