Medicina Omeosinergica e PNEI
Medicina Integrata
Medicina Integrata
La medicina omeosinergetica dice che tutto quello che il corpo crea come reazione non è una reazione casuale, che ci “colpisce” all’improvviso o perché siamo sfortunati o perché non ci meritiamo certe situazioni e certe cose. Nulla è a caso.
Vincenzo Valesi - 16/02/2020
Tratto da I Rimedi Naturali del Medico di Famiglia (Macro Edizioni, 2011).
La medicina omeosinergetica nasce da una realtà biologica, scientifica, anatomica, embriologica, per poi arrivare al senso sia degli organi che delle malattie. La moderna PNEI ci insegna che la maggior parte di quelle che chiamiamo malattie sono condizionate da un’alterazione del sistema PNEI, acronimo che significa psico-neuro-endocrino-immunologia.
Allo scopo di continuare la specie l’uomo ha sviluppato, col passare del tempo, dei programmi biologici di sopravvivenza, che sono diventati automatici e quindi sono inscritti nel suo cervello e nelle sue cellule.
Pertanto tutto quello che il corpo crea come reazione non è una reazione casuale, che ci “colpisce” all’improvviso o perché siamo sfortunati o perché non ci meritiamo certe situazioni e certe cose. Ogni reazione organica o somatica ha una sua logica ben precisa.
Questa visione psicosomatica non può prescindere da quello che viene definito approccio omeosinergetico delle malattie, inquadrato dalle sette leggi qui sotto elencate:
1. Tutto è uno.
2. Tutto è perfetto.
3. Tutto ciò a cui si resiste persiste.
4. Consapevolezza o sofferenza.
5. La malattia è una benattia.
6. Ogni malattia nasce da un rifiuto.
7. Legge del simile o dell’attrazione o dello specchio.
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1. Tutto è uno
Questo è un concetto fondamentale, che ha profonde implicazioni filosofiche e religiose, ripreso da Jung nel suo inconscio collettivo, dall’idea dell’universo olografico, da filosofi come Liebniz che parlavano di monadi. Se tutto è uno non esiste la separazione. Di conseguenza tutti gli atti di violenza, di sopraffazione, tutte le azioni traumatiche che rivolgiamo contro gli altri, le portiamo in realtà contro noi stessi.
2. Tutto è perfetto
Se tutto è perfetto non esistono errori e sbagli, e soprattutto non esistono colpe. Niente invece è a caso, tutto ha una sua logica, anche un abbandono, una morte. Una malattia è biologicamente perfetta, utile, necessaria, indispensabile. E allora anche un’esperienza che apparentemente può sembrare negativa, diventa necessariamente perfetta.
Vengono ribaltati i concetti di peccato, errore, sbaglio: ognuno fa quello che può in base al suo livello di evoluzione.
In questa “perfezione” abbiamo diversi livelli di consapevolezza. Per esempio, chi ammazza è ovvio che ha un livello di consapevolezza molto basso. Socrate diceva che non esistono persone cattive, ma solo persone che non conoscono il bene. Soltanto che il livello di coscienza di questo tipo di azioni è molto basso a livello di vibrazione, quindi è molto bassa anche la consapevolezza. Ma se tutto è perfetto, dobbiamo aver paura della malattia? È necessario spaventarsi per i sintomi? Anche gli eventuali “errori” che commettiamo possono essere una soluzione per un problema e rappresentano in ogni caso un’esperienza. Non esistono azioni sbagliate, ma solo diversi livelli di coscienza, dove ogni livello è perfetto e ha un suo scopo.
3. Tutto ciò a cui si resiste persiste
Ogni patologia cronica, ogni sofferenza cronica è legata al rifiuto dell’esperienza nella fase acuta. Quando noi resistiamo a qualcosa lo alimentiamo. Se vogliamo che una cosa vada via dobbiamo calarci in essa, guardarla in faccia, viverla. E non invece far finta di niente, controllarla, combatterla. Perché tutto ciò a cui si resiste persiste, tutto ciò che noi rifiutiamo, in realtà lo stiamo cronicizzando, stiamo creando le basi perché possa continuare a essere presente nella nostra storia e nella nostra esperienza.
Anche quando ci lamentiamo di un sintomo, stiamo resistendo. Ogni sintomo quando viene accettato va via, perché ogni sintomo nasce per andar via. In biologia esistono solo sintomi acuti, che diventano cronici quando non sappiamo accettarli. Questo concetto vale non soltanto per i sintomi ma anche per le esperienze, nei rapporti di coppia, nei rapporti interpersonali. Pertanto, quando in un rapporto di coppia resisto a qualche cosa, nel senso che non sto accettando un comportamento, non accetto l’atteggiamento di qualcuno, io sto resistendo e purtroppo sto cronicizzando la situazione invece di risolvere
il problema. Rimane solo la separazione o simbolica o oggettiva, vera.
Ogni malattia acuta, così come viene così deve andar via. Se persiste è perché c’è un blocco, un rifiuto, una resistenza. Tutto quello che è “anti” blocca. Ogni volta che prendo un “anti” sto resistendo: sul momento il sintomo va via, ma il processo si cronicizza.
Quando per esempio in una malattia acuta febbrile virale io sopprimo la febbre con un antipiretico, non mi rendo conto che la febbre non è una malattia, ma un meccanismo di difesa che serve a facilitare il lavoro di linfociti e macrofagi, indebolisco la reazione favorendo lo sprofondamento del virus e molto facilmente andrò incontro a ricadute, sub-cronicizzazioni e cronicizzazioni le quali hanno lo scopo di finire il lavoro non terminato.
4. Consapevolezza o sofferenza
Ci sono due strade per poter guarire: o ci consapevolizziamo o soffriamo. E questo non deve essere visto come una punizione, del tipo “se non ti consapevolizzi ti punisco con la malattia”. No, la sofferenza o malattia è solo l’ultima occasione che ci viene offerta per poter guarire. Sono due realtà inversamente proporzionali, vuol dire che chi si ammala o chi soffre, anche per pene d’amore oltre che per pene fisiche, è perché non è consapevole del senso di quello che sta vivendo. La vera grande cura di una malattia è realizzare consapevolezza. La malattia può nascere, la sofferenza può esistere solo se non c’è consapevolezza. Prendendo solo il farmaco evitiamo di diventare consapevoli perché trasferiamo al farmaco il potere di farci star bene. Invece se prendiamo consapevolezza, se scopriamo il perché ci ammaliamo, perché quell’organo e non quell’altro, allora entriamo in un percorso attraverso il quale sarà più facile eliminare la sofferenza.
5. La malattia è una benattia
Se la malattia è uno strumento di consapevolizzazione e quindi di guarigione è meglio parlare di “benattia”. Grazie alla consapevolezza va via la sofferenza. Invece spesso per non avere sintomi preferiamo “morire dentro”. I sintomi sono già la dimostrazione di una guarigione biologica in noi.
La malattia è uno step fondamentale per evolverci. Allora che senso ha bloccarla, che senso ha lamentarsi? Dobbiamo entrare invece in questo percorso di conoscenza.
Ogni malattia acuta nasce come sblocco e conseguente guarigione di una malattia cronica. Quando si blocca una malattia acuta nasce una malattia cronica, perché tutto quello a cui si resiste persiste. Viceversa quando nel corso di una malattia cronica compare improvvisamente una malattia acuta, vuol dire che questa malattia acuta sta guarendo la malattia cronica.
6. Ogni malattia nasce da un rifiuto
Dal rifiuto in atto deriva la malattia che serve per sbloccare il rifiuto stesso. Ci sono tanti modi di rifiutare: attraverso la rabbia, la paura, attraverso il giudizio, la critica, l’abbandono, la solitudine, il vittimismo. Le malattie ci offrono la possibilità di prendere consapevolezza di questo rifiuto. La malattia a livello comportamentale non è altro che la conseguenza di un atteggiamento di negazione verso la vita. Ogni volta che io nego la vita mi ammalo. Mi ammalo sempre e comunque di malattie acute perché, biologicamente parlando, l’organismo non conosce le malattie croniche. Ogni malattia cronica è la conseguenza di questa malattia acuta che nasce perché c’è un rifiuto.
Quando rifiutiamo la vita, questo comporta una diminuzione dell’energia e una diminuzione della nostra reattività.
L’organismo, che in conseguenza di questo rifiuto si trova in una condizione di ipoergia, sviluppa allora una reazione iperergica per compensare quello stato di ipoergia iniziale. Infatti quello che caratterizza una malattia acuta e che ha la sua espressione più eclatante nell’infiammazione acuta è la febbre: quindi aumento di temperatura, cioè calore, dolore, tumefazione, limitazione funzionale. Quando abbiamo una malattia acuta si costruisce ATP quindi aumenta l’energia a disposizione. In ogni malattia acuta l’organismo sta reagendo per compensare una situazione di ipoergia che si è creata grazie al rifiuto: ecco perché la malattia acuta è una necessaria benattia, perché “iper” diventa necessario allorché a livello comportamentale abbiamo creato l'“ipo” in conseguenza del nostro rifiuto.
Pertanto in questa ottica, tutte le malattie nascono da pensieri e sentimenti negativi che, come ci insegna la psiconeuroendocrinoimmunologia, alterando il fisiologico comportamento delle ghiandole endocrine portano a una disregolazione del sistema immunitario, del metabolismo e del sistema neurovegetativo.
Secondo questa visione, l’intervento terapeutico non deve essere solo quello di bloccare o annullare dei sintomi, ma di potenziare e supportare i poteri immunitari e le risorse dell’organismo, in modo che sia l’organismo stesso a superare la malattia.
Ci sono due possibilità:
Rifiuto/non accettazione → Conflitto = Distress → Malattia
oppure
Accettazione → Non conflitto → Eustress → Salute
L’intensità del rifiuto, la colorazione dell’emozione provata quando è avvenuto, determinano
l’area del cervello colpita, l’organo fisico corrispondente e la gravità della malattia.
Noi abbiamo quattro possibilità di rifiuto.
- I. Rifiuto lieve → Stress lieve → Lieve mancanza di ossigeno, perché ogni volta che io rifiuto mi blocco, diminuisce l’energia, diminuisce l’ossigeno. Quindi c’è una diminuzione dell’ossigeno che sposta il metabolismo verso un atteggiamento anaerobico. L’organismo allora cerca di reagire aumentando l’escrezione, si ha un’iperfunzione e un ipermetabolismo. È la prima fase, quella più banale, lieve e leggera, per cui l’organo aumenta la sua funzione. La maggior parte delle persone si trova in questa fase. Nel caso dell’intestino un po’ veloce, irritabile, siamo a questo livello. Cioè c’è un aumento dell’escrezione, perché stiamo “eliminando” un rifiuto lieve.
- II. Rifiuto medio → Stress medio → Media mancanza di ossigeno (non più un ingorgo ma una) → Displasia. Questo significa che a questo punto l’organo aumenta le sue dimensioni nella materia, si crea quella che si chiama ipertrofia e quindi abbiamo le cisti e varie ipertrofie d’organo. Pertanto, quando abbiamo a che fare con delle cisti, che sono un aumento del materiale biologico dell’organo in essere, rappresentano a monte l’effetto di un rifiuto abbastanza importante.
- III. Rifiuto severo → Stress severo → Severa mancanza di ossigeno → Displasia. Anche qui si verifica displasia, ma solo che stavolta non aumenta più la forma, la materia, ma aumenta il numero, quindi dall’ipertrofia si passa all’iperplasia ed è così che nasce il tumore benigno: fibroma, esostosi, gozzo, fibroadenoma, ipertrofia prostatica, calcolo della vescica biliare o del rene.
- IV. Rifiuto grave → Stress grave → Grave mancanza di ossigeno → Atteggiamenti di dedifferenziazione. Sono, quindi, banalmente e semplicemente quattro livelli di intensità dello stesso rifiuto.
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7. Legge del simile o dell’attrazione o dello specchio
È la legge per la quale ogni essere umano ha a disposizione l’universo per conoscersi.
Ma come fa a conoscersi attraverso l’universo? Usando la legge dello specchio, della risonanza, dell’attrazione, per cui quello che noi attiriamo dal di fuori lo attiriamo perché è già presente in noi. Ogni volta che attiriamo un comportamento, una persona, un avvenimento, una malattia che ci dà fastidio, in quel momento noi abbiamo l’opportunità, grazie a questa situazione, di conoscerci.
Quando non siamo consapevoli di quello che siamo, la vita attraverso gli altri ce lo manda a dire. Ecco perché allora attiriamo certe esperienze, certi comportamenti, certe modalità, che spesso si ripetono. Non è un caso: se io, rispetto a quell’esperienza che sto attirando e che mi infastidisce, fossi già divenuto consapevole che sono anch’io in quella maniera, quell’esperienza non mi avrebbe dato affatto fastidio.
Questo discorso diventa fondamentale da vivere e da mettere in pratica.
Non esiste la sfortuna, che spesso tiriamo in ballo per giustificarci. Esiste solo un basso livello di consapevolezza. Tutti “pensano” di operare bene, ma poi si lamentano dei risultati. Con umiltà e onestà dobbiamo capire che se raccogliamo male a un qualche livello, anche se non ce ne rendiamo conto, stiamo seminando male. Quindi ciò che vediamo negli altri è la proiezione di ciò che è dentro di noi: il simile attira il simile.
L’occhio è la finestra dell’anima e la bellezza, al pari della bruttezza, è negli occhi di chi la guarda.
Il simile è colui che pur condividendo con un’altra persona il senso della stessa esperienza, manifesta reazioni e comportamenti diversi. La dinamica è la stessa, però la esprimiamo in modo diverso. Ecco perché si parla di simile e non di uguale. Bisogna essere intellettualmente onesti e rivederci tramite questa legge. Se abbiamo attirato quel tipo di comportamento, non c’è possibilità di errore: lì c’è uno specchio.
Questa è una legge universale. Chi vuole sapere e chi non vuole. Chi non vuol sapere va facilmente incontro alla sofferenza, non come castigo, ma come ultima unica occasione per guarire.
Noi tutti attiriamo persone ed esperienze che vibrano alla nostra stessa frequenza. Dobbiamo avere l’onestà di ammetterlo: nulla ci capita per caso, ma attiriamo tutto, inconsapevolmente a livello incosciente, ma consapevolmente a livello animico. Sta a noi portarlo a livello della coscienza, e per fare questo ci sono due strumenti: l’umiltà e l’onestà con se stessi.
Una donna che, nonostante cure specifiche, va continuamente incontro a vaginiti ripetute deve interrogarsi sulla qualità del rapporto col suo partner e su se stessa. I batteri, i bruciori urinari, non sono più un caso. E la guarigione si può raggiungere solo attraverso l’accettazione di questi atteggiamenti o comportamenti altrui. Pertanto, lo specchio diventa indispensabile per portare consapevolezza dove non c’è, per portare la luce dove ci sono le tenebre del giudizio, della critica e della aspettativa.
Senza lo specchio non si può arrivare alla consapevolezza; senza il simile inizia il caso, con il caso inizia il caos, quindi si ha una visione casuale della vita con la perdita di vista del suo significato.
«Dio non gioca a dadi col destino degli uomini» (Albert Einstein).
E, aggiungo io, non ci urla la verità negli orecchi, ma la sussurra delicatamente a chi vuole ascoltarla, dall’ultima cellula ai più elevati livelli di coscienza.
Ci sono due modi per metterci in rapporto con un’altra persona:
a. giudizio, critica, aspettativa; ciò crea una separazione, quindi un conflitto;
b. specchio, risonanza, accettazione. Quando riusciamo a riconoscerci in qualche cosa capiamo che l’altro non c’entra più niente, è solo un aiuto per scoprire noi stessi, per conoscerci. Questo è il vero significato del porgere l’altra guancia, del dare il mantello a chi ci chiede la tunica, di camminare venti miglia con chi ci obbliga a camminare un miglio.
Il problema non è modificarsi: la gente è abituata a pensare che per poter star bene bisogna fare qualche cosa. Fare psicoterapia, fare un cambiamento ecc. Come dire che se scopro di essere testardo devo diventare elastico. Scopro di essere critico, devo diventare tollerante. No, io non devo niente! Alla tolleranza non si arriva in questa maniera. Tu al positivo non arrivi negando il negativo. Questo è moralismo, non è un processo di consapevolezza e di guarigione. Si arriva alla positività nel riconoscimento e nella accettazione di quello che “consideri” negativo, che è semplicemente quello che sei.
Il cambiamento non deve avvenire mai in base a una scelta morale, o meglio moralistica, per cui ti dici «sono negativo, devo diventare positivo». Perché questo già sottende un giudizio, che è quello che devi evitare.
Anche la scelta delle parole è molto importante. Cerchiamo di eliminare le parole che hanno insito in sé un giudizio.
Diventiamo “armonici” quanto più ci riconosciamo e ci accettiamo in quello che per noi è disarmonico. Non è un problema di etica, ma di conoscenza. Conoscere e accettarci per quello che siamo serve a rendere sopportabile e non patogeno il carico che ci portiamo addosso, serve a risolvere i conflitti.
Stiamo bene quando attiriamo il positivo perché quelle persone non fanno altro che confermare quello che dentro di noi accettiamo, mentre le persone negative ci confermano quello che di noi non accettiamo. Ma se vogliamo evolverci dobbiamo prendere in considerazione non soltanto quelle positive, ma soprattutto quelle che “consideriamo” negative perché ci fanno capire come non ci accettiamo e ci portano pian piano ad accettarci attraverso loro. Ma non si può accettare ciò che non si conosce.
Queste persone sono i veri angeli (dal greco anghelos, che significa “annunciatore”). Esse ci annunziano quello che siamo.