Che cos'è il campo akashico: intervista a Ervin Laszlo
Elsa Masetti - 01/01/2016
Tutto a suo tempo.
Sebbene, pare, lo spazio–tempo sia una delle proiezioni dell’Akasha – la realtà profonda che sottende tutte le cose – un suo espediente evolutivo. Della funzione fondante di questo etere, altro modo di chiamare il quinto elemento o Akasha, aveva già parlato il grande Tesla. Invano? Si fa per dire. In questo tessuto, archivio akashico, tutto giace simultaneamente, in un movimento verso l’ordine, la coerenza. Niente cessa e tutto ritorna… Ops, uscite un attimo dal paradigma temporale. Intendo, torna all’attenzione, che se è totale è nel senza tempo.
Le parole di Ervin Laszlo sono state per me un’infusione di fiducia. Mi auguro che lo siano anche per voi.
Intanto mi piacerebbe che si presentasse, sebbene non sia nuovo alla nostra rivista.
Si definisce un filosofo della scienza, un teorico sistemico o, con parole più pratiche, di esperienza umana: che nome darebbe al suo mestiere? Se dovesse dire io faccio questo mestiere, come lo direbbe?
Un uomo che ama indagare e sapere, conoscere di più. Solo questo. Non ho un mestiere specializzato, anzi potrei dire che il mio mestiere è quello di non essere uno specialista. Non ho mai intrapreso una disciplina pura, sebbene abbia insegnato filosofia in diverse università dell’America, del Giappone, in Europa, perché questo mi ha dato la massima libertà di andare dove volevo, di viaggiare. Di fatto io indago, sono curioso e in questa vita che ho a disposizione voglio veramente sapere chi sono io, che cos’è il mondo e dove stiamo andando, collettivamente.
Mi pare, ed è evidente nel suo essere scrittore che non solo ami conoscere per sé, ma che soprattutto si metta al servizio della comunità umana condividendo le sue esperienze, le comprensioni ricevute, i nuovi orizzonti della scienza quale terreno fertile per spiegare le innumerevoli potenzialità della coscienza…
Sì, naturalmente, se trovo qualcosa che so di essere d’interesse per gli altri, lo scrivo e se nel rileggerlo ha un senso, lo divulgo. Questo condividere con gli altri ha già avuto inizio negli anni Sessanta, con il mio primo libro.
A suo avviso l’informazione porta già in sé trasformazione o c’è piuttosto bisogno di una pratica di ciò che si dice (e si legge), di quello che s’insegna?
È necessario praticare, naturalmente, e per me una pratica trasformativa è quella che va oltre il paradigma dominante, attuale. Cerco sempre il senso di quello che ho intorno, di quello che sperimento e questa ricerca di solito mi porta oltre la conoscenza dominante, condivisa dai più. Tendo sempre ad andare oltre, perché credo che la scienza – come la filosofia, come tutti i sistemi di conoscenza – debba indagare, evolvere e non limitarsi a ripetere quello che esiste. Indagare, ricercare il senso, in modo da andare un passo sempre più avanti.
Quali sono gli strumenti che lei usa per questa indagine?
Leggere, discutere e pensare. Questi sono gli strumenti principali. Io pratico quello che penso ma la pratica è sempre ristretta alla persona, al momentaneo, mentre il pensiero va molto al di là dell'immediato e oltre quello che c’è intorno.
Continua la lettura di questo articolo su Scienza e Conoscenza 51, un numero speciale dedicato alla MEDICINA QUANTISTICA.