Cervello e linguaggio: apprendere una nuova lingua lo modifica. L'esempio del Sanscrito
Neuroscienze e Cervello
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L’apprendimento di nuove lingue plasma il cervello e rimodula la percezione della realtà. Cosa accade al cervello quando la lingua imparata è quella degli Dei, ovvero l'antica lingua sanscrita? Ce ne parla il neurologo ed esperto di Ayurveda, dottor Antonio Morandi
Antonio Morandi - 17/05/2018
L’apprendimento di una nuova lingua provoca dei cambiamenti sia a livello strutturale del cervello, che nell’elaborazione della percezione della realtà. Quest’ipotesi è stata confermata da molteplici studi. È stato infatti ampiamente dimostrato come, anche nell’adulto, l’apprendimento di lingue straniere sia accompagnato da un cambiamento strutturale delle regioni del cervello coinvolte nel linguaggio e a un aumento di volume della loro materia grigia. Questi cambiamenti sottendono ovviamente una variazione a livello microstrutturale e cioè dei neuroni, delle cellule gliali e delle loro connessioni sinaptiche. In particolare, è stato osservato che proprio l’ippocampo e aree del lobo temporale sinistro sono strutture che si sono rivelate importanti per l’apprendimento di una nuova lingua. Come già accennato, l’ippocampo è cruciale per la formazione delle memorie a breve ed a lungo termine, ma è anche noto come quella struttura principalmente affetta nella malattia di Alzheimer. A tal riguardo è interessante notare che le persone bilingue tendono ad avere un inizio ritardato della malattia di Alzheimer rispetto alle persone monolingue. Come se l’aumento di volume dell’ippocampo indotto dal bilinguismo svolgesse un ruolo protettivo, forse di buffer, nei confronti della neurodegenerazione.
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Le diverse lingue manifestano le infinite capacità di adattamento del genere umano e presentano caratteristiche particolari, sia dal punto di vista strutturale che logico. Il modo di formare i vocaboli, le regole grammaticali e sintattiche costituiscono gli elementi fondanti di una lingua. Considerando la stretta relazione che esiste fra cervello e linguaggio, è ragionevole affermare che una lingua esprima nella sua struttura lo schema funzionale del sistema cognitivo cui appartiene. Quindi imparare una nuova lingua implicherebbe la possibilità di assimilare anche un diverso sistema di elaborazione del pensiero e quindi di percezione della realtà.
La lingua degli Dei: il Sanscrito
Fra le varie lingue esistenti al mondo, sono circa 7,000, ne esistono alcune con caratteristiche strutturali molto particolari, che più di altre possono influenzare la struttura cognitiva. Il Sanscrito è una di queste.
La struttura grammaticale del Sanscrito è così complessa e completa che è stata presa come riferimento dalla moderna informatica. Le 3959 regole definite dal grammatico Pāṇini anticipano infatti la moderna logica formale matematica e i metalinguaggi utilizzati per la progettazione dei linguaggi di programmazione dei computer.
La caratteristica principale che differenzia il Sanscrito dalle lingue moderne risiede nel fatto che le sue parole sono per la maggior parte costituite da radici verbali e non rappresentano oggetti ma le loro proprietà. Questa caratteristica porta a una mancanza di univocità fra parola ed oggetto, se non in pochissimi casi, come ad esempio per i numeri. La realtà descritta dal Sanscrito quindi è dinamica e non imprigionata nella staticità dell’oggetto. Ad esempio, una parola sanscrita per indicare un “albero” è vṛkṣa che letteralmente vuol dire “qualcosa che viene tagliato e cade”: appare ovvio che questa proprietà di cadere quando tagliato può essere applicata anche ad altre entità che non siano un albero. Le parole quindi cambiano in relazione alla proprietà che maggiormente rappresenta la funzione dell’oggetto considerato. Infatti, se vogliamo porre l’attenzione sul fatto che l’albero ha radici che traggono i nutrienti dal terreno, si userà la parola pādapa che significa “qualcosa che beve usando i piedi”.
Sulla base di questa logica, una parola sanscrita può essere coniata da chiunque sulla base delle proprietà di un oggetto, anche se sconosciuto. Le parole si formano secondo un algoritmo specifico chiamato vyākaraṇa che mette insieme morfemi indicanti proprietà semplici per formare aggregati complessi. Quindi il numero di parole che si possono formare in Sanscrito è virtualmente infinito.
L’aspetto peculiare del Sanscrito in pratica è che grammatica e semantica sono fusi in una entità coerente e non sono separate come nelle altre lingue.
Quanto detto è indice della complessità e diversità del modello cognitivo che corrisponde alla lingua Sanscrita, e che descrive un mondo interconnesso e in continuo cambiamento. Un mondo descritto attraverso la lingua Sanscrita acquista sicuramente dimensioni diverse, e infatti la scienza vedica descrive una realtà molto più vicina a quella descritta dalla moderna fisica quantistica a cui concettualmente si avvicina.