"La teoria del tutto": un film da vedere per chi ama la scienza e i grandi sentimenti
Emanuele Cangini - 01/01/2016
«Non ci dovrebbero essere limiti alla ricerca umana. Siamo tutti diversi. E per quanto la vita possa sembrare cattiva, c’è sempre qualcosa che si può fare e riuscirci. Finché c’è vita, c’è speranza».
Con questa frase il celebre cosmologo-scienziato Stephen Hawking chiude il sipario di una delle scene conclusive del film La teoria del tutto, uscito nelle sale cinematografiche italiane nel 2014 e tratto dalla storia autobiografica di Jane Hawking (prima moglie del fisico); una visione che tocca profondamente le corde dell’animo, permeando di una densità palpabile il lirismo romanzato che ne asseconda la trama.
La vita del geniale scienziato viene proposta da un’angolazione alternativa, spostando abilmente il baricentro della narrazione dalle scoperte che lo hanno reso famoso, pur accennandole, alle normalità della sua quotidianità. Le gesta coraggiose di una donna che lo ama, che lo sposa e ne sposa tutti i limiti della malattia, e che in nome di quell’amore totale, con disilluso eroismo, rinnega la spensieratezza della propria gioventù per consacrarsi a un sentimento certamente difficile da vivere, forse impossibile. Jane, conosciuta presso il college, è figura ricca di significato, degna di quella valenza che la vede oscillare tra una presenza a tratti anche ingombrante e una più amena zona d’ombra, nella quale sa porsi con silenziosa compostezza. Le scoperte dello scienziato non da fulcro della progressione narrativa, fanno da cornice a quella malattia che lo abbatte nel corpo ma non nello spirito, nei gesti ma non nei pensieri; inappellabile la sentenza di un medico amareggiato, che con sentito sconforto comunica al giovane genio appena ventenne i suoi “due ultimi anni di vita”.
Ciò che pare essere una condanna, si rivela un inno alla vita.
Non esiste morte laddove esistono riflessione, immaginazione, speculazione; non esiste abbandono laddove si invoca il proprio irrevocabile diritto alla vita. È evidente da parte del regista James Marsh, il sottolineare un contrasto: lo stridere che si produce dallo scontro tra un nichilismo indotto da un destino crudele e una ferrea volontà di vivere, e di vita, nostalgicamente umanista. La frase di Stephen, sul lettino, rivolta al medico è emblematica: «Anche il cervello ne è colpito?».
In questo bailamme, non passa certo inosservata la mutazione di paradigma scientifico-spirituale di Hawking: una posizione certamente ortodossa e confacente ai protocolli cattedratici conservatori, che lo vede porsi inizialmente a difesa della roccaforte dell’ateismo scientifico newtoniano, pregno di quei rigori d’indagine figli dell’epopea illuminista, muta in una più malleabile e speranzosa ottica di apertura.
Un’apertura che, a tratti, veste i panni di una sorta di attesa.
Quell’universo che prima era visto, pensato, come non necessariamente concepibile tramite causa prima, viene rivisto, rimeditato; magari infinito, senza limiti e senza contorni. Magari…
Quel dio tanto temuto, tanto taciuto, tanto accantonato, pare non fare più paura. E se anche nei nuovi modelli cosmologici non viene menzionato, nemmeno, parimenti, gli viene chiusa la porta in faccia, escludendolo come si farebbe con qualsiasi segreto scomodo e innominabile.
La fiamma del fuoco di un camino, intravista dalla trama infeltrita di un maglione di lana maldestramente indossato ai bordi di un letto, scatena la scintilla, l’intuizione, che porteranno lo scienziato, di lì a poco, già dotto di dottorato, a formulare la sua geniale teoria di descrizione dei buchi neri.
Essi emettono radiazione termica: perdendo energia e particelle perdono al contempo massa, giustificando in tal modo una ipotetica evaporazione che ne determinerebbe la limitatezza di vita.
Una teoria scientifica, certo, ma ancor più prosaica, che si permette con i colori della matematica di scrivere un nuovo spartito cosmologico.
Un film intenso e vibrante. Meritato il plauso al giovane attore emergente Eddie Redmayne per la sublime interpretazione di Hawking.
Durante lo scorrere dei titoli di coda, con lo sguardo bloccato e sospeso tra i nomi in successione, una frase è sopravvenuta alla mia memoria, una frase famosa, titolo di una canzone del maestro Franco Battiato:
«Tutto l’universo ubbidisce all’amore».
Sì, ne sono ora ancor più convinto; questo film è un inno, una consacrazione, all’amore.
Visto con la penna di uno scienziato e scritto con l’anima di una storia coraggiosa.