Origine dell'uomo sulla Terra: la terza via
Pietro Buffa - 01/01/2016
Ho sempre guardato a Homo sapiens come a una sorta di “estraneo” su questo pianeta. Un essere vivente anomalo rispetto agli altri, non particolarmente integrato con alcun habitat naturale e per questo spesso costretto a modificarne le caratteristiche, per far sì che l’ambiente intorno a lui risulti maggiormente disponibile, meno aggressivo nei suoi confronti, più adatto alla sua sopravvivenza (antropizzazione).
In questi termini, l’essere umano rappresenta un caso unico in natura, decisamente non uniformato al resto del mondo animale, in cui ogni singola specie è invece assoggettata ai delicati equilibri esistenti all’interno di precise zone adattative.
L’uomo semplicemente non ha un proprio habitat naturale; lo straordinario sviluppo encefalico e la capacità di comprendere i meccanismi che governano la natura ne hanno garantito la sopravvivenza anche laddove questa sarebbe stata impossibile per via di un “corredo biologico” non adeguato.
La discrepanza tra caratteristiche sviluppate e loro funzione adattativa è una costante che si ripete di continuo nel corso del processo di ominazione. Parliamo di una sorta di incongruenza bio-evolutiva che generalmente riscontriamo in quegli organismi che, a seguito di un processo di domesticazione o di manipolazione genetica, acquisiscono caratteristiche utili a determinati scopi a scapito di capacità adattative.
Penso sia questo un argomento da non sottovalutare all’interno di un percorso di indagine sulle origini umane che, valicando posizioni pregiudiziali e alla luce delle molteplici questioni che rimangono ancora eluse, non escluda la possibilità che nella nostra storia biologica sia accaduto qualcosa di programmato.