La relatività del tempo e dello spazio
Antonella Ravizza - 01/01/2016
All’inizio del XIX secolo gli esperimenti sull’interferenza e sulla diffrazione della luce avevano convinto la comunità scientifica che la luce avesse natura ondulatoria, ma si pensava che le onde luminose si propagassero in un mezzo materiale chiamato etere luminifero, presente in tutto l’universo.
Attraverso un apparato sperimentale costituito da un interferometro, i fisici statunitensi Michelson e Morley conclusero che la teoria dell’etere era inadatta a descrivere il comportamento della luce e tutto il problema doveva essere ripensato da capo.
L’esperimento era semplice: fecero passare un raggio di luce attraverso un interferometro e lo videro diviso in due parti, che prima percorrevano cammini diversi e poi tornavano a sovrapporsi per produrre interferenza. Un eventuale vento d'etere avrebbe comportato una diversa velocità della luce nelle varie direzioni e, di conseguenza, uno scorrimento delle frange di interferenza al ruotare dell'apparato rispetto alla direzione del vento d'etere, ma pur effettuando un certo numero di misure, non rilevarono lo spostamento minimo previsto delle frange di interferenza.
Fu a questo punto che Albert Einstein propose di rifondare la fisica partendo da due principi:
- il principio della relatività ristretta
- e quello di invarianza della velocità della luce.
Nel principio di relatività ristretta Einstein afferma che le leggi e i principi della fisica hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali e è chiamato così per differenziarlo dal principio di relatività generale che sarà scritto, sempre da Einstein, più avanti.
Il principio di invarianza della velocità della luce afferma che la velocità della luce c è la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali, indipendentemente dal moto del sistema stesso o della sorgente da cui la luce è emessa. In base al principio di invarianza di c, Einstein comprese che tutta la fisica si basava sull’ipotesi dell’esistenza di un tempo assoluto, che scorre allo stesso modo in tutti i sistemi di riferimento. Einstein studiò in modo critico l’idea di tempo assoluto, a partire dall’analisi del concetto di simultaneità.
Due eventi che avvengono in due punti differenti sono simultanei se i segnali luminosi da essi prodotti arrivano nello stesso istante in un punto equidistante ai due punti di partenza.
Il concetto che sta alla base della definizione è semplice: i due segnali impiegano intervalli di tempo uguali per percorrere spazi uguali, quindi se arrivano contemporaneamente, devono essere partiti simultaneamente. Einstein però aggiunse che la simultaneità è relativa, perché due eventi che risultano simultanei in un dato sistema di riferimento, non lo sono in un altro sistema che sia in moto rispetto al primo.
Questo risultato non si coglie nella vita quotidiana, perché le velocità che riusciamo ad ottenere sono così piccole rispetto a c che non è possibile avere un’esperienza diretta della relatività della simultaneità; le cose cambiano invece quando i corpi in moto raggiungono velocità prossime a c. Noi non vediamo mai un orologio come è in un determinato momento, ma lo vediamo come era quando partiva da esso la luce che entra nei nostri occhi.
Per esempio, se volessimo leggere l’ora su un orologio posto sul sole, leggeremmo il tempo che indicava 8 minuti e 20 secondi prima; quindi bisogna introdurre qualcosa che ci permetta di sincronizzare tra loro i due orologi posti ad una certa distanza. Essi sono sincronizzati se il secondo, quando riceve il lampo di luce emesso all’istante t0 dal primo, segna il valore t=t0+(distanza tra i due)/c. Consideriamo ora un lampo di luce visto da due osservatori in moto uno rispetto all’altro.
Facendo opportuni calcoli, si arriva al risultato che i due intervalli di tempo misurati per un osservatore in moto rispetto ad un altro sono differenti e più precisamente la durata di un fenomeno (cioè il tempo tra l’inizio e la fine) risulta minima se misurata in un sistema di riferimento solidale con il fenomeno stesso; questa durata si chiama tempo proprio.
Quindi, se un astronauta partisse per un viaggio ad una velocità quasi uguale a quella della luce, il suo orologio scandirebbe un tempo più lento di quelli delle persone rimaste a terra, perciò per lui il tempo scorrerebbe più lentamente. Nel 1971 due ricercatori statunitensi (Hafele J.C. e Keating R.E.) portarono in volo su aeroplani di linea degli orologi atomici al cesio precisissimi.
Viaggiarono per tre giorni e effettivamente al loro ritorno questi orologi indicavano decine di nanosecondi diversi rispetto agli orologi gemelli rimasti a terra, quindi trovarono un accordo con la teoria.
La realtà e il ruolo dell'osservatore
Due osservatori in moto relativo non misurano però solo tempi diversi, ma anche lunghezze differenti. Come nel caso del tempo, la lunghezza di un segmento misurata nel sistema di riferimento in cui il segmento è in quiete si chiama lunghezza propria, mentre la lunghezza del segmento in un sistema di riferimento in moto rispetto ad esso è sempre minore della lunghezza propria. In altre parole, se un oggetto è in movimento, lungo la direzione del moto esso è più corto di quando è fermo, per questo si parla di contrazione delle lunghezze.
Oggi si possono ottenere accurate conferme sperimentali delle previsioni della teoria della relatività attraverso lo studio delle particelle subatomiche. Con gli acceleratori di particelle infatti si possono portare le minuscole particelle a velocità molto vicine alla velocità della luce.
Al CERN dal 1969 al 1976 Emilio Picasso e Francis Farley e i loro collaboratori hanno sperimentato la dilatazione dei tempi sui muoni, particelle cariche non contenute nella materia ordinaria, a differenza degli elettroni e dei protoni: muoni in moto avevano una vita media quasi trenta volte maggiore di quella che avevano in quiete, provando in maniera quantitativa che per i corpi in moto il tempo scorre più lentamente.
Che questo possa essere una speranza per allungare la vita dell’uomo?